In una delle caratteristiche del dispotismo asiatico russo Marx ed Engels identificano uno dei punti di forza del bastione della reazione europea: la stagnazione sociale e politica, l'assenza totale di uno sviluppo politico interno, sulla base della quale lo zarismo produceva una politica estera reazionaria a suo gradimento.
Ciò a differenza delle potenze limitrofe o concorrenti, la cui politica estera, ridimensionati gli interessi delle cricche dinastiche, subiva invece il predominio dell'interesse economico. Ormai i rapporti internazionali tra le potenze, determinanti sul socialismo come sulle lotte per l'unificazione e l'indipendenza di vari paesi europei, risentivano dell'andamento del ciclo capitalistico, mentre alla reazione europea risultava sempre disponibile la forza militare dell'autocrazia zarista il cui intervento, decisivo, era del tutto privo di ostacoli "capitalistici".
Ci si consenta qui di precisare il concetto marxista di bastione della reazione europea il senso con cui Marx ed Engels l'hanno adoperato. Come in questo concetto, nel rapporto, naturalmente relativo, di forza tra stati, un paese «arretrato», la Russia, possa assolvere un ruolo reazionario decisivo, sullo sviluppo politico europeo, su alcuni paesi «avanzati».
Quando misurando la potenza politica, anche solo di due Stati, si assume l'«arretratezza» come arretratezza economica, si presuppone implicitamente che i rapporti sociali dominanti tali Stati siano omogenei, per es. che entrambi siano capitalistici. Solo così è infatti possibile fondare su di una superiorità o un'inferiorità economica, l'ipotesi che vi corrisponda una superiore od un'inferiore potenza politica. L'arretratezza sociale esclude invece questa corrispondenza ipotetica, anche se altri fattori possono determinarne un risultato coincidente. Come dimostra anche soltanto lo zarismo, forma specifica russa del dispotismo orientale, arretratezza sociale e potenza politica, non solo non si escludono ma possono coesistere, sono coesistiti sostanziando il ruolo di bastione della reazione europea.
Ciò, ad esempio, spiega la sconfitta napoleonica in Russia meglio di quanto non faccia il «generale inverno». Per farla breve, Napoleone in ritirata non avrebbe mai potuto incendiare Parigi o Lione, come invece fece Alessandro I con Mosca senza che la «società civile», essendo del tutto inesistente, potesse battere ciglio. E del resto gli stessi fattori militari, ben noti anche a Napoleone, come il «clima» e la «vastità» del territorio, non sono forse anche fattori dell'arretratezza sociale russa?
E' necessario quindi sottolineare come Marx ed Engels, nel concetto di bastione della reazione europea, non si attardino a prevedere la sconfitta del paese «arretrato» ad opera di uno o più paesi «sviluppati» ma come piuttosto includano nei fattori di potenza politica statale l'arretratezza sociale, in questo caso russa, appoggiandone qualsiasi nemico interno e combattendone qualsiasi alleato esterno, in questo caso la Gran Bretagna.
Considerata sotto quest'aspetto, la politica di Marx e di Engels non è che una grande lezione per la fallita lotta dell'antistalinismo tradizionale contro l'accoppiata USA-URSS di un secolo dopo. Antistalinismo restato impigliato nell'illusione, confortata dalla potenza politico-militare dell'URSS, che la potenza "arretrata" tale non fosse, anzi per alcuni di loro era addirittura «imperialismo» nel senso leninista, nel senso della «maturità capitalistica» del termine. Per l'antistalinismo tradizionale, capitalismo/industrialismo statale o non statale, semi o quasi socialista, l'illusione è stata che l'URSS stesse sviluppando forze produttive. Che addirittura (nessun antistalinista escluso) l'URSS stesse diffondendo sviluppo capitalistico in Asia, al punto da produrre (su alcuni) un miraggio in cui la successiva diffusione capitalistica a Taiwan, Corea del Sud e coste orientali della Cina, sarebbe stata ad un certo punto in corso sull'Ussuri, provocando i noti scontri russo-cinesi.
Ma torniamo al bastione della reazione europea zarista, non senza sottolineare come i suoi «tempi» non solo non siano scanditi dal ciclo economico ma come siano ancorati alla vita stessa dell'autocrate, che spesso non rappresentandosi correttamente i rapporti di forza tra clero, nobili, ecc., deve venir eliminato fisicamente e sostituito con uno più consapevole. Crollata l'URSS, i cui «tempi» erano scanditi dai «segretari generali», non resta che l'autocrazia vaticana e qualche residuo stato asiatico a funzionare con simili forme. E' su questa base, che si è sempre svolta ogni "politica" dinastica, ed è sempre su questa base reale (precapitalistica) che si è potuta sviluppare l'ideologia che vede la storia come realizzazione dei "potenti", della loro "brutalità" come della "lungimiranza", ecc. ecc..
Il 19 Ottobre del 1858, sulla «New York Daily Tribune» Marx scrive:
Che dire di un Alessandro II che proclama dei «diritti appartenenti per natura ai contadini» e di cui «non li si sarebbe mai dovuti defraudare»? Tempi strani davvero, questi! Nel 1846, un papa che dà inizio a un movimento liberale; nel 1858, un autocrate russo, un vero somoderzez vserossiiskij, che esalta i diritti dell'uomo! E vedremo che il proclama dello zar avrà un'eco mondiale e un effetto di portata molto maggiore che il liberalismo del pontefice.
Tre anni dopo, Alessandro II, succeduto al padre suicida, Nicola I nel 1856, per molti è passato alla storia come lo «zar liberatore» abolendo, nel 1861, la «servitù della gleba». Sono gli anni della lotta per l'abolizione della schiavitù negli Stati Uniti, dell'indipendenza italiana, ecc. ecc.. Ma per la Russia sono soltanto gli anni immediatamente successivi alla guerra di Crimea (1854-55).
La sconfitta russa in Crimea, nonostante le sue proporzioni siano state ridotte dalla diplomazia zarista, è stata per le ambizioni imperiali dell'autocrazia zarista un monito decisivo. Non si può cogliere appieno la portata di tale evento se non la si misura con il precedente predominio (che la Russia aveva acquisito sconfiggendo Napoleone) sulle potenze europee. Soprattutto non la si può comprendere se non la si misura con le ambizioni zariste. Come ricorda Marx, i Russi chiamavano Costantinopoli «zarograd», cioè città dello zar. La stessa fondazione di Pietrogrado, la capitale dell'impero, che poco storicamente viene considerata solo come un slittamento «occidentalista» dell'impero russo, è considerata da Marx di segno opposto, il segno della bramata espansione dell'autocrazia ad occidente (cfr. di Marx "Storia diplomatica segreta del XVIII secolo."). Per semplificare, si potrebbe persino azzardare come relativamente più greve il peso politico internazionale della Russia prima della guerra di Crimea, di quello assunto dall'URSS dopo la seconda guerra mondiale, quando nonostante tutto mantenne "alla larga" dell'occidente la propria capitale.
Alessandro II doveva affrontare l'«elemento estraneo», la competizione politica e militare estera, scuotendo l'imperturbabile stagnazione sociale russa. Per farlo doveva mutare l'atteggiamento passivo dei contadini, cioè dei soldati del proprio esercito di cui, soprattutto, doveva colmare il divario tecnico-militare da quelli europei. In questa competizione deve essere cercato lo scopo della «abolizione della servitù della gleba», che, non a caso, non è che una delle riforme imposte dallo zar alla stagnante Russia.
Razionalizzare però il processo riformista di Alessandro II, definendolo modernizzatore, equivale a non comprenderne le contraddizioni che lo condurranno, con i tempi russi, al sostanziale fallimento sino al crollo stesso dell'autocrazia zarista.
L'analisi delle riforme introdotte da Alessandro II esula dagli scopi che ci proponiamo e ben volentieri la lasciamo ad altri. Ciò che dobbiamo sottolineare è come le riforme che accompagnarono quella della «liberazione dei servi», istruzione, sanità, giustizia e amministrazione civile (introduzione dello zemstvo), portarono comunque ad un relativo allargamento della vita cittadina, o meglio non contadina, producendo o comunque estendendo l'intellighenzija, termine col quale si va ben oltre il ristretto termine di intellettuali. Dunque estendendo uno strato sociale non contadino (studenti, avvocati, medici, funzionari degli Zemstvo, ecc.), le cui funzioni e realizzazioni lo estraniavano sempre più dall'autocrazia ed in cui un diffuso senso di colpa verso l'esistenza barbara ed inane del mugiko andava via via rafforzandosi.
Dall'intellighenzija sorgeranno gli esecutori di Alessandro II, i populisti.
Introducendo la «liberazione dei servi» l'autocrazia ne danneggiava necessariamente i «detentori», la nobiltà russa. Senza servi della gleba la nobiltà russa era di fatto declassata, più o meno a buon prezzo ma declassata. Del resto la nobiltà russa si era emancipata solo sotto Elisabetta (1741-1762) e Caterina II (1762-1796). Per poter controllare un impero sempre più vasto, con le risorse incamerate requisendo i beni ecclesiastici, Caterina II aveva concesso alla nobiltà l'esenzione dal "servizio di stato", una sorta di servizio a vita per lo Stato introdotto da Pietro il Grande, e dalle imposte assegnandole le terre demaniali, su cui, con l'inclusione della Piccola Russia (l'Ucraina), completava in estensione la «servitù della gleba» reintrodotta da Elisabetta.
In realtà quindi la «liberazione dei servi» potrebbe persino essere considerata nient'altro che un passo indietro, un episodio della perenne lotta di palazzo tra autocrazia e nobiltà, i cui colpi di stato, assassinii e complotti galleggiavano sulle stagnanti comunità di villaggio russe. Lo zar stesso, nella su esposta citazione che ne fa Marx, parlando del «diritti appartenenti per natura ai contadini» ne parla come di cosa di cui «non li si sarebbe mai dovuti defraudare», cioè come di cosa che abbiano in qualche modo avuta e che gli doveva essere restituita, cioè il diritto di vegetare nel villaggio nella costante sublimazione dell'autocrazia zarista. Soltanto in rarissimi casi, infatti, i pregiudizi dei contadini erano riusciti a sposarsi con i loro interessi causando sollevazioni tali da mettere in qualche modo in pericolo lo Stato russo: quando fu introdotta la «servitù della gleba» con la rivolta di Stenka Razin, e quando fu estesa, appunto sotto Caterina II, con la rivolta di Pugacev, che com'è noto dovette il suo successo allo spacciarsi per Zar, per il consorte di Caterina II, da questa invece eliminato.
Comunque sia Alessandro II, nonostante detenesse sotto ipoteca almeno il 50% delle terre nobiliari, dovette giungere ad una mediazione con i nobili di cui fecero le spese i contadini ricevendo in riscatto meno terra di quanto ne coltivassero prima e, soprattutto, delle peggiori. Ma ciò che caratterizza la «liberazione» è la conservazione del mir o obscina, il vincolo del contadino alla comunità di villaggio cui apparteneva. Per l'autocrazia zarista la fonte della forza militare, il soldato, discendeva dall'autorità del mir che ne garantiva il reclutamento, soprattutto ora che si era introdotta la coscrizione obbligatoria. Inoltre soltanto il mir era in grado di garantire il pagamento del riscatto delle terre come quello delle altre imposte.
Soltanto una quota della popolazione servile fu effettivamente proletarizzata, quella dei «domestici». Si trattava due, tre milioni di servi che, essendo senza terra, non poterono ne potevano cambiare il senso sociale della «liberazione», ma che furono comunque resi disponibili per il nascente sviluppo capitalistico come per i servizi della nobiltà e dell'intellighenzija nelle città.
Lo Zar combatteva le istituzioni, sociali giuridiche e legislative, capitalistiche non meno dei suoi futuri assassini. Accettava sì di introdurre riforme (dopo una riflessione durata almeno tre Zar e maturata solo per una premonitrice sconfitta militare) ma non di eliminare le fondamenta stesse dell'autocrazia, cioè la stessa obscina, la stessa comunità di villaggio o mir, che d'altra parte il terrorismo populista difendeva dalle modernizzazioni zariste.
Nell'obscina il vincolo comunitario non era meno forte della servitù della gleba. La ripartizione solidale della terra tra i membri dell'obscina non meno catastrofica per la produttività agricola. L'incremento della popolazione, da 73 milioni del 1861 ad oltre 125 milioni del 1897 sino ai 170 milioni del 1917, riducendo la superficie dei lotti individuali, era destinato ad affossare la produzione agricola, o comunque, a trasferirne una quota crescente all'autoconsumo limitando quella commerciabile, ed a quadruplicare il prezzo della terra, affamando la maggioranza dei contadini. La struttura comunitaria del mir costringeva il villaggio a trattenere la sovrapopolazione pur di conservare la quota insufficiente di terra detenuta, pur di dividere al massimo tra i suoi membri il peso dell'imposta e del reclutamento militare. La barbara idiozia rurale del mugiko, che non riusciva a darsi ragione della limitatezza del mir (Universo), si sposava con quella altrettanto barbara ed idiota, ma autocratica dello Zar, che riteneva la propria natura e missione «divina».
Insomma la questione agricola russa è stata per lo zarismo irresolvibile a causa della sua stessa esistenza, della sua stessa esistenza sociale, «asiatica», principale ostacolo alla penetrazione capitalistica in Russia, e per esistenza sociale non intendiamo le sue leggi, il suo feroce protezionismo, i suoi confini, ma proprio l'impossibilità che la campagna russa si emancipasse dall'autoconsumo, dalla barbarie del mir, per produrre non solo un'eccedenza di grano per lo zar ma anche una domanda di quei beni di consumo che ormai l'industria europea produceva a buon mercato. Certamente le leggi zariste avrebbero potuto ostacolare, hanno ostacolato, la penetrazione capitalistica nelle campagne russe, ma il fatto stesso che non si sia sviluppato un contrabbando su larga scala, degno di tal nome, lungo gli smisurati confini russi, certifica in un certo senso, come l'ostacolo principale fosse sociale e non legale.
Se non si concepisce la specifica forma russa del «dispotismo orientale», lo zarismo, come un ostacolo sociale allo sviluppo del mercato mondiale capitalistico, si perde un elemento essenziale della natura sociale russa.
Secondo gli stalinisti però, ma anche alcuni bolscevichi pre 1917 (es. Rjazanov e non solo), la «liberazione dei servi» sanziona uno avvio di sviluppo capitalistico russo le cui origini mercantili datano da Pietro il Grande. Questa ricostruzione storica, in cui l'apparenza (la forma di dominio politico), non corrisponde mai alla sostanza (alla sottostante struttura economica), si rivela, naturalmente, funzionale all'ideologia che il socialismo in un paese solo sia la conclusione di un processo storico piuttosto che dei processi di Mosca. Avremo modo di tornare su questo specifico modo di deformare il marxismo, di ridurlo al suo opposto, dato che anche, e per quanto ci riguarda soprattutto, gli antistalinisti tradizionali ripetono tale errore quando, in contraddizione con tutta l'apparenza URSS, la definiscono ostinatamente (decine d'anni!) capitalismo di stato, Stato operaio, o comunque come veicolo dello sviluppo delle forze produttive.
Anche per il marxismo è noto come esistano momenti, nella vita di un modo di produzione, in cui la struttura economico-sociale, a causa di uno sviluppo delle proprie forze produttive, entra in contraddizione con le forme di dominio esistenti, ma, precisiamo noi, non con qualsiasi forma di dominio ma con quella corrispondente al precedente livello delle forze produttive. Su quest'ultima precisazione torneremo in una prossima prossima nota, resta comunque il fatto che per il marxismo i momenti in cui l'apparenza non corrisponde più alla sostanza per il marxismo sono comunque, sia pure in senso storico, momenti rivoluzionari, mai epoche stagnanti. Anche l'ipotesi di un salto, prospettata da Marx ed Engels ai russi, basandosi su una rivoluzione comunista, europea, contemporanea ad una rivoluzione russa, non si è realizzata essendo venuta a stata sconfitta sia l'una che l'altra.
La questione che stiamo affrontando non è dunque se ci sia stato o no uno sviluppo capitalistico russo, ma come e perché questo sia stato insufficiente a provocare un «1789» russo. Perché, nonostante la «liberazione dei servi» si sia dovuto attendere per una rivoluzione in Russia il 1905.
Della fissità, della mancata proletarizzazione delle campagne russe, e la Russia era campagna, abbiamo già detto anche in altra nota. Il resto ce lo dice lo stesso sviluppo capitalistico russo. Adoperiamo per questo alcuni dati forniti da Trotzky nei primi capitoli del suo "1905", scritto dopo il 1917, e di cui, qui, non ci occupiamo. Non ci soffermiamo cioè sulle ragioni per cui Trotzky, ma anche Lenin, anche tutti i bolscevichi come tutti i menscevichi, affermino e difendano lo sviluppo capitalistico russo contro le tesi populiste che ne negavano la stessa possibilità. Del resto tutti i socialdemocratici russi si formeranno proprio a questa scuola nel tentativo di sbarrare ogni strada alla prospettata soluzione populista alla rivoluzione russa, per tutti inevitabile. Restiamo quindi ai fatti come ce li descrive Trotzky nel capitolo "Il capitalismo russo":
Durante il primo decennio successivo alla riforma contadina nel nostro paese furono costruite 7.000 verste di strade ferrate, nel secondo decennio 12.000, nel terzo 6.000 e nel quarto più di 20.000 nella Russia europea, circa 30.000 in tutto l'impero.
...
Solo nell'ultimo decennio del secolo scorso, specie dopo l'introduzione della valuta aurea (1897), in Russia affluì non meno di un miliardo e mezzo di rubli di capitali industriale. Mentre in 40 anni, sino al 1892, il capitale fisso delle società per azioni era aumentato complessivamente di 919 milioni, nel solo decennio successivo esso salì di colpo a 2,1 miliardi di rubli.
L'importanza che per l'industria russa ha avuto il flusso aureo proveniente dall'Europa risulta dal fatto che, mentre nel 1890 l'ammontare di tutta la nostra produzione industriale era pari ad un valore di 1 miliardo e mezzo di rubli, verso il 1900 questo valore raggiunse i 2,50 - 3 miliardi di rubli. Nello stesso periodo il numero degli operai impiegato nell'industria saliva da 1,4 milioni a 2,4 milioni.
...
Fino al 1861 sorsero soltanto il 15% del numero complessivo delle imprese industriali russe; dal 1861 al 1880, il 23,5%; dal 1881 al 1900, più del 61%; inoltre nell'ultimo decennio del secolo scorso è avvenuta la costituzione del 40% di tutte le nostre imprese.
Trotzky quindi ci descrive uno sviluppo capitalistico russo sino al 1905, con due ritmi, uno sino al 1880-85, l'altro successivo. Significativo che Trotzky faccia riferimento esplicitamente ad Alessandro III, cioè al successore dello «zar liberatore» come spartiacque tra i due periodi (cfr. "1905" Nuova Italia, pag. 25). Ma cosa caratterizza i due periodi in questione? Il primo periodo, quello di Alessandro II, si caratterizza come periodo di adattamento dello zarismo all'«elemento estraneo», sia come reazione dello zarismo al proprio indebolimento, nel confronto internazionale, sia come influenza ideologica sui populisti. E' il periodo della decadenza della piccola nobiltà, il periodo in cui si consuma tutto l'itinerario populista, dall'«andata al popolo» sino all'attentato della Narodnaja Volja ad Alessandro II, al cui successo ne deve il proprio fallimento, la conseguente vittoria dello zarismo.
Il secondo periodo, quello di Alessandro III, è dunque un periodo di rafforzamento interno dello zarismo. Esso appare quindi agli storici come una svolta «reazionaria» rispetto a quello precedente, proprio quando invece lo zarismo riesce ad essere «modernizzatore», proprio quando il proprio rafforzamento gli consente di trarre vantaggio persino dall'«elemento estraneo», sotto forma di importazione di capitali e di prestiti statali, di «industrializzazione». Proprio quando la «campagna» interrompe le proprie impotenti sollevazioni, caratterizzando il periodo anche per la stasi del movimento contadino.
Ciò che deve essere compreso è come i due periodi non siano due «fasi», o momenti, di un ciclo capitalistico ma due momenti in cui con un differente grado di «forza» il dispotismo zarista persegue le proprie modernizzazioni.
Se ne deve quindi conseguire come lo sviluppo capitalistico descritto fosse sotto tutela zarista, almeno quanto lo zar stesso si veniva a trovare sotto tutela finanziaria, estera. Ma non è questa la questione. La questione è che della Russia non viene mai descritto uno sviluppo capitalistico endogeno, russo, molecolare. E un tale sviluppo non può essere descritto, men che meno da Trotzky come da chiunque per quel periodo, perché la campagna russa era rimasta impermeabile allo sviluppo capitalistico cui non rimase che l'incesto con la rendita fondiaria di cui si nutriva lo zarismo.
La stessa industrializzazione rilevata da Trotzky non è per lo Zar che il raggiungimento di un più alto livello di competitività militare, statale. Banalizzando, ma la sostanza è questa, un po' come quando doveva dotarsi di un maggior numero di carrozze e servitori per consentire al suo seguito di spostarsi con lui. Ma tale industrializzazione un effetto certamente lo produsse introducendo in Russia una nuova classe sociale, il proletariato. Certo un proletariato minoritario, Trotzky indica per il 1900 2,4 milioni di operai dell'industria. Certo un proletariato senza tradizioni, appena emerso dalla palude dei villaggi, totalmente immerso nella tradizione e nelle credenze contadine, ma l'effetto che la sua stessa esistenza ebbe sull'intellighenzja, in particolare sui populisti, fu enorme, profondo ed illuminante. E' facile comprendere, persino condividere, l'entusiasmo con cui i populisti, la cui abnegazione aveva dell'inimmaginabile, si resero conto di poter parlare delle condizioni di vita e di lavoro ad operai che, nonostante credessero alla natura divina dello zar non meno dei contadini, li ascoltavano e, in sia pur rari casi, ne seguivano le rivendicazioni economiche, antiborghesi. Per decenni i populisti si erano dovuti travestire da artigiani di ogni tipo, avevano dovuto impararne il mestiere, solo per poter entrare nei villaggi senza esserne scacciati dagli stessi contadini. Ora incontravano invece una specifica popolazione, il proletariato riunito dalla fabbrica, che li ascoltava e, spesso, ne discuteva le idee. Fantastico, incredibile! Ad una vita in clandestinità, di rinunce, in cui i compagni d'avventura venivano continuamente torturati, eliminati, esiliati dall'Okrana, ora poteva finalmente corrispondere una base sociale, una prospettiva. L'incontro con il marxismo era soltanto questione di tempo, inevitabile. Già prima dell'attentato ad Alessandro II, il populismo si era spaccato in due tronconi. Un'ala terroristica, la Narodanja Volja (Volontà del popolo) ed una, il Cernyi Peredel (Risuddivisione nera), che per così dire, cominciava a riflettere sulla necessità di una propaganda, di una organizzazione, richiamandosi anche all'esperienza di Marx ed Engels. Da questa scissione, dal Cernyi Peredel, numerosi populisti giungeranno al marxismo seguendo l'itinerario del fondatore della socialdemocrazia russa (1898), Georghj Plekhanov.
E' con questo secondo periodo che si chiude l'800 russo. Sfociando nel marxismo, la tradizione populista determinava una singolare situazione in cui i rivoluzionari, marxisti, attendevano dallo sviluppo capitalistico quello della classe rivoluzionaria, che essi ambivano a rappresentare e guidare. La lotta dei populisti allo zarismo, ingenua e reazionaria, essa stessa prodotto dell'arretratezza sociale russa, aveva generato il massimo della consapevolezza politica, il marxismo, mentre avviando comunque un'industrializzazione lo zarismo produceva un capitalismo acefalo, con una borghesia socialmente impotente né rappresentativa, subordinata allo zarismo stesso.
Se la periodizzazione di trotzky si apre con la pubblicazione dei racconti di Turgenev "Memorie di un cacciatore", 1852, in cui come racconta N.V. Rjasanovskij in "Storia della Russia", «i servi della gleba erano descritti come esseri umani pienamente evoluti che non potevano essere dimenticati», questa si chiude con la pubblicazione di Checov "Il giardino dei ciliegi", 1902, in cui Checov descrive il percorso con cui, una famiglia della nobiltà, cade completamente in rovina per non "lottizzare" il proprio, ormai inutile, giardino dei ciliegi. Il servo di famiglia suggerisce onestamente ai padroni di salvarsi lottizzando il terreno del giardino dei ciliegi. Quando, contro ogni logica, la famiglia rifiuta tale lottizzazione, il servo stesso finisce con l'acquistare "il giardino dei ciliegi" all'asta indetta dai creditori per sanare i debiti della nobile famiglia. Ora egli stesso servo, figlio di servi della gleba, soltanto grazie alla nobile imbecillità è divenuto padrone. L'autore però non affida la sorte del futuro, dell'avvenire all'ex-servo, ma alla coppia di giovani della commedia che senza rimpianti confidano che il loro giardino diverrà l'intera Russia.
Questa storia, illuminante di per sé sui «tempi» russi, non ci racconterebbe nient'altro che una breve cronaca della decadenza nobiliare, se non che Checov, narra questa storia per ironizzare sul passato, sui pregiudizi della nobiltà annientati dal buon senso servile, per illuminare un futuro che solo una nuova generazione potrà riscattare dal passato. Insomma Checov scrive una commedia umoristica, quasi una farsa, il cui senso è comunque ottimistico. Seguendo l'identico destino della precedente commedia "Le tre sorelle", la commedia riscuote successo ma, contro ogni convinzione dell'autore, si trasforma sin dalla prove in un dramma. A niente valgono le proteste di Checov. Sul cast e sul pubblico russo non prevalgono né il gusto né le opinioni di quella media e piccola borghesia, che accaparrandosene i beni, possa ridersela dei pregiudizi della nobiltà. Prevalgono il rimpianto e la nostalgia per il bel tempo antico di chi ancora vive e difende, con se stesso, più o meno consapelvolmente, anche l'autocrazia zarista.
A riaprire infatti la partita con lo zarismo, non saranno i servi imborghesiti dai sempre più frequenti giardini dei ciliegi, ma, paradossalmente, proprio quei contadini sulla cui inerzia ancora galleggiava lo zarismo a cavallo del secolo.
C.D.C. Settembre 2003
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