Il «grande balzo» industriale zarista è stato, oggetto d'attenzione non solo da parte degli storici ma anche degli stessi contemporanei. Hans Rogger, nel suo "La Russia prerivoluzionaria, 1881-1917", riporta da una fonte russa un'interessante opinione:
Un economista francese predisse nel 1913 che se le nazioni europee continuavano a svilupparsi come avevano fatto tra il 1900 e il 1912, la Russia, verso la metà del secolo, avrebbe dominato il continente sia politicamente che economicamente.
L'accostamento con le attuali cartoline illustrate da panorami cinesi è immediato. Non abbiamo bisogno di sottolineare come sia finita tale estrapolazione statistica, la consueta profezia. Ricordiamo invece come a questo tipo di previsioni resterà poi aggrappato il «campo sovietico» con l'ideologia del «socialismo in un paese solo» elevandosi, se così si può dire, da una previsione prossima all'aggiottaggio, necessariamente a breve termine, ad un'ideologia con cui l'URSS doveva rappresentarsi e giustificare, il più lungo termine possibile, la propria potenza statale.
Opinioni, dottrine, teorie ecc. che, materialisticamente, non sono che il riflesso della realtà materiale nella coscienza degli uomini, il modo in cui questa si impone sul loro pensiero, su quello delle classi dominanti come su quello delle classi dominate. L'unica distinzione, accettabile su questo piano, è infatti una distinzione di classe. Per marxisti quali Trotzky, Lenin, Luxemburg, ecc., cioè per dei rivoluzionari, l'ideologia espressa non è che una necessaria e cosciente approssimazione scientifica, la più vicina possibile alla realtà, alla prospettiva sociale che si ambisce rappresentare, mentre per la parte avversa la propria ideologia non è che giustificazione di una realtà sociale, che si ambisce a conservare, su cui la riflessione scientifica non è che di ostacolo e, come tale, rimossa e combattuta. E' questa, in fondo, la ragione per cui il materialismo come concezione sociale è rimasto patrimonio esclusivo del marxismo. Giusta quindi la distinzione ma senza mai dimenticare che il marxismo, persino quello irrigidito in «dottrine» da posteri bramosi di soluzioni più che del necessario lavoro materialistico, è comunque determinato da una base materiale più o meno decantata dal tempo, dalla storia.
A posteriori è dunque sempre il decantato materiale il metro con cui misurare la correttezza delle ipotesi avanzate, a consentire una materialistica correzione dell'errore. Nel nostro campo l'errore è sempre un errore materiale, di rappresentazione di ciò che è altrimenti identificato e compreso come «tendenza oggettiva». Naturalmente esistono anche errori di carattere soggettivo ma, ridurre tutto a quest'ultimi significa soltanto rimanere impantanati in un altrettanto colpevole «soggettivismo», rimanere impantanati in una perenne ricerca di una qualche «colpa» da emendare.
Tutto ciò, materialisticamente, può anche apparire ovvio ma non lo è stato affatto per l'antistalinismo tradizionale.
Citiamo, su questo specifico, concreto, aspetto "Lotte di Classe e Partito Rivoluzionario" (1964) di Arrigo Cervetto, testo in cui la ricerca dell'errore è rappresentata dalla scelta, dal confronto, tra la strategia di Lenin e quella di Trotzky.
In apertura del libro,
Di estrema importanza sarebbe il vedere quanto lo studio e la soluzione ad esso inerente di problemi tipici e di problemi specifici (il problema del mercato ecc. ecc.), dello «Sviluppo del capitalismo in Russia» abbia permesso a Lenin di ricostruire nel «Che fare?» «tutta la formazione sociale capitalistica» nelle «manifestazioni sociali concrete dell'antagonismo delle classi» e nella «soprastruttura politica».
Vogliamo ammettere, anche se non concediamo, che ciò che è tipico non sia specifico, ammettiamo anche, sempre senza concedere, che nel "Che fare" sia ricostruita «"tutta la formazione sociale capitalistica"» (quindi anche tutta la «soprastruttura politica» capitalistica, nella Russia autocratica?), non possiamo invece che concedere ed ammettere che sì, in effetti per valutare una «strategia» conoscerne l'analisi, gli elementi concreti che la determinano, «sarebbe» di estrema importanza, ma giunti infine alla conclusione del libro, senza che quel «sarebbe» abbia perso niente del suo valore condizionale:
Lenin in una densa serie di scritti analizza e studia il problema dello sviluppo capitalistico in generale ed il problema dello sviluppo capitalistico in Russia, in particolare. Lenin affronta questo problema da un punto di vista teorico e lo risolve nella analisi specifica della realtà sociale russa. I risultati a cui perviene sono di estrema importanza perché da una parte stabiliscono una dettagliata e scientifica metodologia di analisi economico-sociale e, dall'altra, permettono una valutazione, basata su criteri rigorosi, delle classi in Russia, della loro lotta e dei loro rapporti. Come si può parlare di «forze motrici» della rivoluzione senza un'analisi scientifica di queste forze, del loro sviluppo, del loro peso specifico, della loro forza e della loro debolezza? E poi, come si può parlare delle stesse «forze motrici» senza una analisi scientifica del processo economico-sociale che queste forze esprime, sviluppa o comprime? Alla base della strategia di Lenin non vi è solamente l'analisi scientifica delle forze motrici della rivoluzione russa: vi è qualcosa di più, vi è una scienza che permette una determinata analisi, vi è una teoria dello sviluppo capitalistico che continua la teoria marxista dello sviluppo capitalistico del «Capitale». La teoria leninista dello sviluppo capitalistico non è una innovazione rispetto al «Capitale»: ne è, invece, una rigorosa e conseguente applicazione, uno sviluppo strettamente coerente e fecondo.
Certamente, appunto, «Come si può parlare di "forze motrici" .....» senza parlarne?
«E poi», (ancora!?), «come si può parlare delle stesse "forze motrici" ...» senza parlarne?
A. Cervetto ci riesce compiutamente, parlando di «una dettagliata e scientifica metodologia di analisi economico-sociale» .... senza parlarne!!
Certo Lenin non ne "parlerebbe" se non avesse compiuta una tale analisi, è questo che Cervetto vuol dire?
Certamente è tutto ciò che ci dice.
Rassicurandoci però: «vi è qualcosa di più», «vi è una teoria dello sviluppo capitalistico che continua la teoria marxista dello sviluppo capitalistico del "Capitale"».
E sul finire del libro, ricongiungendo quel «sarebbe» d'inizio libro a presunte conclusioni:
Non possiamo in questa sede illustrare, neppure a grandi linee, la teoria leninista dello sviluppo capitalistico. La complessità e la quantità dei suoi aspetti ce lo impediscono ed, ovviamente, una adeguata illustrazione richiederebbe uno studio organico e specifico che non mancheremo di fare anche perché, a nostro avviso, si è troppo trascurato questa importantissima parte del pensiero di Lenin.
Questa parte, «importantissima», del pensiero di Lenin è stata effettivamente troppo trascurata, soprattutto da Cervetto che, onestamente ammette, «richiederebbe uno studio organico e specifico che non mancheremo di fare», che cioè Cervetto non ha fatto, certamente mentre scrive, ma anche in tempi più recenti, almeno stando ad un editoriale di Lotta Comunista del giugno 1981, da cui apprendiamo che :
L'opera pionieristica di Lenin sulla questione agraria, sullo sviluppo del capitalismo russo e sull'imperialismo non ha trovato ancora quel seguito che era necessario.
E' certo però, che questa carenza senza seguito, «importantissima» (anche sull'imperialismo!!), non gli ha impedito di trarne (importantissime?) conseguenze sin dal 1964:
La strategia leninista del 1905 non era, quindi, «una» strategia del proletariato, ma era «la» strategia del proletariato. Se non possiamo illustrare tutta la teoria di Lenin sullo sviluppo capitalistico che è alla base della sua strategia, possiamo però indicarne due aspetti fondamentali che possono contribuire a far meglio comprendere la sua strategia, da un lato, e, dall'altro, il carattere non scientifico della strategia di Trotzky. In tutta la sua analisi dello sviluppo capitalistico in Russia, Lenin giunge ad una classificazione - anche statistica - del proletariato, che si distingue non solo da quella di Trotzky ma pure da quella tradizionale di un Kautsky, ad esempio. La classificazione di Lenin del proletariato in Russia è una classificazione che si differenzia da quella convenzionale. Lenin analizza tutto il mercato della forza lavoro e quindi anche la vendita della forza-lavoro che avviene in modo parziale non costante.
Introducendo questo criterio di analisi, Lenin segue tutto il processo della proletarizzazione in tutti i suoi stadi e giunge ad una valutazione della popolazione proletaria differente da quella di Trotsky e comunque più alta.
Non possiamo qui spiegare come Lenin giunga a queste conclusioni. Le conseguenze strategiche appaiono, però, ovvie una volta accettata l'analisi di Lenin.
«Non era, quindi ...», quindi cosa?
Quindi cosa se manca totalmente una qualsiasi ricostruzione storica della società russa, dei fattori su cui misurare sia la strategia di Lenin, sia quella di Trotzky?
Quindi ... manca ciò che «sarebbe di estrema importanza» per illustrare le fondamenta sociali della strategia di Lenin, manca del tutto, anzi no, «possiamo però indicarne due aspetti fondamentali», indicandone poi uno solo, quello della «proletarizzazione», evidentemente della popolazione contadina, «in tutti i suoi stadi», con cui si sostanzia la divergenza strategica tra Trotzky e Lenin, anche se «non possiamo qui spiegare come Lenin giunga a queste conclusioni».
Non è solo fortuna il fatto che per Lenin, contrariamente agli attuali «leninisti» per i quali "Lotte di Classe e Partito Rivoluzionario" è ancor oggi verbo, fosse necessario verificare sul campo la propria analisi, correggendone eventuali errori, in particolare proprio sulla proletarizzazione, perché la costante verifica scientifica delle ipotesi prodotte è, innanzi tutto, tipica, oseremmo dire: specifica, proprio di Lenin e di Trotzky.
Infatti Lenin, ne "Il Programma Agrario della Socialdemocrazia", del 1907:
Origine di quest'ultimo errore era il fatto che, pur determinando esattamente la tendenza dello sviluppo ne determinavamo in maniera inesatta il momento [Considerazione ormai divenuta una litania per gli attuali, sedicenti, «leninisti». ndr]. Noi supponevamo che in Russia gli elementi dell'agricoltura capitalistica si fossero già formati sia nell'azienda dei grandi proprietari (meno le «terre stralciate» [dalla riforma del 1861. ndr] che asservivano il contadino e delle quali si rivendicava la restituzione), sia nell'azienda contadina, che sembrava aver espresso una forte borghesia contadina, e ci pareva quindi incapace di compiere una «rivoluzione agraria contadina». Non il «timore» di una rivoluzione agraria contadina fu la causa di un programma errato, ma la sopravvalutazione del grado di sviluppo capitalistico dell'agricoltura russa. Le sopravvivenze della servitù ci sembrarono allora un piccolo particolare e l'azienda capitalistica sulla terra dei nadiel [il lotto di terra ripartito dall'obscina alle singole famiglie di cui era composta. ndr] e dei grandi proprietari un fenomeno del tutto maturo e consolidato.
La rivoluzione [del 1905. ndr] ha messo a nudo quest'errore, ma ha confermato la tendenza di sviluppo da noi determinata.
...
Ma le sopravvivenze della servitù della gleba nelle campagne sono risultate assai più forti di ciò che non pensassimo, hanno fatto di questo movimento la pietra di paragone di tutta la rivoluzione borghese.
Quindi, in un lavoro dedicato alla ridefinizione del programma di Partito di cui quello agrario era parte integrante, Lenin spiega bene quale sia stato il suo «criterio d'analisi», i suoi «metodi preziosi», la sua «dettagliata e scientifica metodologia di analisi economico-sociale»: «noi supponevamo», «sembrava aver espresso», «ci pareva», «ci sembravano», «di ciò che non pensassimo», riferendosi in tutta evidenza all'elaborazione conseguente al suo "Lo sviluppo del capitalismo in Russia" base del precedente programma agrario. Non è possibile alcuna sottovalutazione: programma agrario, in un paese agrario, per una rivoluzione borghese. Lenin spiega così al partito perché, sulla base dell'esperienza del 1905, cioè di una rivoluzione, debba ribaltare «la» strategia utilizzata sino al 1905 («programma errato» per Lenin) in quella («una»?) del 1907.
Non noi dunque ma Lenin riconosce il proprio, enorme, paradossale errore nella valutazione dello sviluppo capitalistico russo. Un errore tanto grande da indurlo a modificare il baricentro, a porre quale «pietra di paragone di tutta la rivoluzione borghese», non i presunti residui del precapitalismo, le terre stralciate, non gli inesistenti proletari (braccianti) di altrettanto inesistenti aziende agricole capitalistiche formatesi persino sulla terra dei nadiel, ma proprio la rivendicazione insurrezionale di terra dei nadiel, per i nadiel.
Se abbiamo controcitato non è solo per dimostrare ciò che la storia materiale, il 1905, ha dimostrato anche ad un Lenin recalcitrante mentre, beninteso, non riteniamo che la correzione apportata da Lenin al proprio «errore» sia per questo più, o meno fondata dell'errore stesso. Abbiamo controcitato anche per i santificatori di maestri ed epigoni, affinché leggano, piuttosto che ripetere "a babbo": «strategia», «strategia», «strategia», «strategia».
In realtà Cervetto, essendo impossibilitato ad una valutazione materialistica per sua stessa ammissione, finisce necessariamente per scegliere la «strategia» preferita, quella ritenuta vittoriosa. La vittoria, e non il confronto materialistico, resta la sua unica unità di misura, giungendo a sostenere, sempre nel 1964, che
Anche dal punto di vista strettamente organizzativo, la storia dimostrò che il Partito rivoluzionario era quello di Lenin. Però [Perciò, quindi, dunque. ndr], la confluenza di Trotsky nel Partito bolscevico potrebbe significare ben poco poiché Trotsky avrebbe potuto portare all'organizzazione bolscevica la sua teoria strategica e vedere confermata la sua concezione.
Invece, proprio questo non avvenne.
Ma che criterio scientifico sarebbe mai questo? Perché scrivere pagine e pagine, sia pure nel modo che abbiamo visto, se poi, tanto, aveva già deciso la "storia" che «dimostrò che il Partito rivoluzionario era quello di Lenin»?
Una volta tanto vale anche per noi quanto metodologicamente affermato da Amadeo Bordiga nel suo "Russia e Rivoluzione nella Teoria Marxista":
Per il metodo marxista l'errore e ... l'imbroccata sono due cose che dovevano entrambe accadere per necessità. Molte battaglie, guerre statali e guerre sociali sono state vinte "sbagliando". E' il rimbambito piccolo borghese che ha una sola misura per spiattellare le sue lodi: il successo.
Per il marxismo infatti neanche la vittoria può interrompere il processo e la riflessione scientifica. Inoltre, come comunisti, per noi la rivoluzione non è affatto lo scopo ma un mezzo, ed è fuori dubbio che in Russia un tale scopo, borghese o comunista che potesse essere ad un dato momento per Lenin, non sia stato mai raggiunto.
Un inciso per i sostenitori del capitalismo di stato in ogni tempo ed in ogni luogo.
Lenin si batte per la rivoluzione democratico borghese. L'aggettivo democratico, qui, non ha niente a che vedere con l'inutile, superflua forma che i suddetti sostenitori immaginano esista in qualche luogo. Per Lenin l'aggettivo qualifica lo scopo che si prefigge. Una democrazia borghese con un forte proletariato, in grado di far valere i propri interessi e di contrastare quello opposto che la borghesia gli contrapporrà dopo la rivoluzione, una democrazia col massimo di libertà.
Agli antipodi invece lo stalinismo, in cui il proletariato russo era liberamente deportato, che ha prodotto il più insensato complesso industriale-militare che sia mai esistito, che ha represso ogni forma di espressione di libertà economica, politica e civile, ma che diventa nella ricostruzione dei suddetti sostenitori, niente meno che un «progresso delle forze produttive», una loro espansione ad «oriente». Questo non è soltanto cieco positivismo, è anche incapacità di ammettere la piena sconfitta della rivoluzione d'Ottobre.
Fine dell'inciso.
Si può però anche sostenere, basta non spacciarsi per marxisti, che la strategia leninista sia stata vittoriosa, come dimostrerebbe l'Ottobre Rosso, la presa del potere. Anche la Comune di Parigi è stata vittoriosa avendo anch'essa preso il potere, oltretutto, ma questo confronto i bolscevichi non potevano ancora farlo, cavandosela con qualche centinaio di migliaia di morti e non con qualche milione come in Russia. Quindi ai bolscevichi si sarebbe potuto dire che «la storia dimostrò che il Partito rivoluzionario era quello di» ... Blanquì piuttosto che quello di Marx???
Per noi invece, l'immagine di un rivoluzionario della forza di Lenin, che, morente e prigioniero di un accozzaglia di medici subordinati a Stalin, clandestinamente, s'informa e comunica a mezzo di inascoltati "pizzini", rappresenta la conferma più significativa e incontrovertibile dell'esatto contrario, che la presunta "storia" non è che una storiella, un residuo delle tante seminate dallo stalinismo, in cui la classe rivoluzionaria sconfitta è celebrata nell'ideologia della vittoriosa classe controrivoluzionaria.
La sconfitta di Lenin, ad opera del suo partito, p r e c e d e n t e q u e l l a d i T r o t z k y, ridicolizza la fiducia e le illusioni che, nel 1964, Cervetto riponeva ancora nel partito russo, anche se, di per sé, non ci aiuta nel decifrare la natura dell'errore, non ci aiuta a comprendere la natura della sconfitta, che pure così bene evidenzia.
E' solo ricostruendo la realtà materiale della Russia dell'epoca che si possono valutare non solo le ipotesi rivoluzionarie sul campo ("dittatura democratica degli operai e dei contadini" e "rivoluzione permanente"), ma anche e sopratutto ripristinare una continuità col lavoro scientifico di Trotzky e di Lenin, ricercando l'errore, evitando accuratamente ogni mitologia, ogni apologia, ogni lode.
Intanto però, su questo piano, possiamo registrare come Lenin, dopo il 1905, confermi proprio quella arretratezza precapitalistica delle campagne russe, con cui Trotzky accredita il «semiasiatismo» russo ancor prima del 1905, riconducendoci sul terreno della valutazione materiale della Russia zarista ed al lavoro delle nostre note.
Si osservi questa cartina relativa al 1860, (pubblicata in "Storia economica dell'ottocento e del novecento", da ISEDI) cioè al periodo della riforma.
La legenda, relativa al sistema della barscina, dell'obrok e della mancanza di servitù, ben riflette in queste forme di retribuzione della rendita, la storia russa, così come altrettanto bene ne rappresenta alcuni, pesanti presupposti della storia futura.
Le zone in cui la servitù fu abolita nel XIX secolo sono le zone di confine, soprattutto polacche, senza o con un riscatto vantaggioso per i contadini, per punire le spinte indipendentiste dell'aristocrazia terriera autoctona. Il peso di queste misure repressive, è rintracciabile a tutt'oggi nel movimento contadino polacco ed in tutta l'area baltica.
Le zone in cui la barscina raggiunge il suo massimo, sono le zone coloniali, di più tarda acquisizione all'impero, le cui terre fertili alimentavano la barscina e la nuova nobiltà terriera occupante.
Le zone in cui la barscina, pur essendo preponderante sull'obrok coinvolge, mediamente, il 65% della popolazione, è la zona originaria della Russia, cresciuta intorno alla Moscovia. E' questo il cuore dell'impero russo, in cui si forma la sua aristocrazia e, dunque, la stessa dinastia autocratica. In questa zona è interessante notare come, pur non essendo predominante sia ben presente l'obrok, che predomina invece nelle zone più a nord, ancora meno fertili.
La barscina è una forma di lavoro servile la cui prestazione è effettuata sulla terra del pomesciki, molto simile in concreto, alla corvée, alla servitù della gleba del medio evo europeo.
L'obrok è invece una forma di lavoro servile che non viene svolto sul terreno del pomesciki. La bassa fertilità della terra costringe il pomesciki ad impiegare il lavoro servile, spesso, nelle terre altrui prestando l'attività del proprio servo, ma altrettanto frequentemente a concedere al servo la libertà di retribuirgli l'obrok con qualsiasi attività questi riuscisse a svolgere. L'obrok consentiva così al proprietario del servo anche di disinteressarsi totalmente dell'attività con cui glielo si retribuiva. Con il dovuto «permesso», l'anima era "libera" di scegliere, di svolgere, qualsiasi attività pur di retribuire l'obrok, assolvendo così ai propri obblighi. In questo caso non è il risultato dell'attività agricola, come parte stessa della terra, ad essere posseduta ma il risultato di un'attività qualsiasi, indirettamente dell'attività in quanto tale, cosa che, totalmente scissa dal contesto, presenta alcune, vaghe, analogie con la borghese libertà, sia della forza lavoro che del suo acquirente.
La cosa è ulteriormente complicata dalla contemporaneità con cui queste forme potevano retribuire la rendita, ma la loro distinzione resta indispensabile per la loro comprensione.
Secondo N. V. Riasanovskj, nella sua "Storia della Russia", a metà '800, l'obrok si stava sviluppando a causa della produttività calante della barscina:
E il risultato fu che dalla metà del secolo in poi l'obrok aumentò a spese della barscina. Il suo valore monetario si accrebbe in misura assai cospicua; il singolo contadino si trovava a dover versare al suo padrone forse dieci volte di più nel 1860 rispetto al 1800, mentre era indotto a lavorar duro dal fatto di poter tenere per sé ciò che restava una volta effettuato il pagamento. I servi ricevevano terra addizionale in cambio dell'obrok, e furono più numerosi quelli tra loro che si guadagnavano il proprio sostentamento - o meglio, quello dei loro padroni - lavorando in fabbriche, nel settore dei trasporti o in altri, ivi compresa l'agricoltura fuori casa. Significativo il fatto che sempre più spesso la manodopera libera venisse assunta in campo agricolo, soprattutto nella regione del Volga e nelle province del Mar Nero. I salari agricoli in generale aumentarono, sebbene resti assai difficile da calcolare l'ammontare dell'aumento e dei salari. Il maggior impiego di lavoratori liberi sui campi - sebbene com'è ovvio, non di rado si trattasse di prestazioni lavorative dei servi di un altro proprietario, assunti temporaneamente - acquista ulteriore importanza se lo si mette in relazione all'aumento della manodopera libera nell'industria e, anzi, in pratica in ogni settore dell'economia russa.
Rjasanovskj indica, prima della riforma, da un lato il crescente prelievo di rendita dei pomesciki dall'altro la crescente inefficienza della barscina. Insomma ben riassume l'abolizione della servitù della gleba come una necessità dell'autocrazia zarista, piuttosto che come risultato di una incipiente «accumulazione originaria». Riasanovkj tratta invece uniformemente il periodo precedente la riforma con quello successivo, quando parla sempre, indistintamente, di servi, finendo anche lui per leggere con categorie moderne la realtà russa. Definendo «assunti», «mano d'opera libera», «i servi di un altro proprietario» che certo né «assunti» né liberi potevano essere, ed attribuendo «ulteriore importanza» all'obrok, predestinandolo a salario, il cui scopo, non essendo da un lato quello di riprodurre la propria forza-lavoro, dall'altro quello di produrre profitto, ma quello di retribuire la rendita, non può essere qui salario, almeno nell'accezione capitalistica con cui interpretiamo tale termine.
In ogni caso in Riasanovskj, la concreta realtà storica riesce comunque ad imporsi in quel suo «sebbene come ovvio ...».
Ed in ogni caso, l'obrok produceva così, altra differenza fondamentale rispetto alla fissità dell'Europa medievale, migrazioni, verso e dalle aree più ricche di possibili attività .
Prima della riforma l'obrok non è quindi nient'altro che una mutazione, un adattamento, della barscina ad una base più miserabile, ad una più bassa fertilità della terra, dei rapporti di servitù russi ma, nonostante tutto è una forma di servitù più flessibile, più adattabile, più produttiva della barscina e, in qualche modo, è anche la dimostrazione concreta di quanto fosse superflua la figura del pomesciki, addirittura dannosa, dato che con l'obrok la rendita può essere ottenuta direttamente in denaro, anche ai fini della raccolta dell'imposta, della rendita per lo Stato autocratico.
Dopo la riforma i rapporti di servitù vengono, in certo qual modo, razionalizzati a vantaggio dello Stato autocratico. Non è più formalmente possibile un rapporto tipo barscina, ma a rigore, neanche uno di tipo obrok.
Riasanovkj però estende l'uso del termine obrok anche al periodo posteriore alla riforma, mentre Lenin non lo utilizza, se non in due note poste in ristampa dello "Sviluppo del capitalismo in Russia" (in una di queste due il termine non compare nell'edizione italiana delle "Opere Complete", mentre compare nell'edizione in francese delle stesse). In ogni caso Lenin si limita a considerare l'obrok quale equivalente di rendita in denaro, tanto che riportando un passo di Marx dal "Capitale" traduce l'espressione «contadini gravati di rendita» con «contadini gravati di obrok» costringendo il curatore, scorrettamente, a riportare il passo di Marx al posto di quello di Lenin, ed a relegare in una nota la spiegazione della sostituzione. Lenin ribadisce ancora questa equivalenza in "Karl Marx", in cui, riportando un passo di Marx sulla «rendita in denaro», precisa: «Nell'antica Russia, l'obrok».
La cosa non è poi così infondata, dato che Marx ricostruisce la mutazione della rendita fondiaria precapitalistica in quella capitalistica utilizzando le forme che la rendita aveva, per così dire allo stato puro, non a caso, in Russia. Il fatto che, comunque, Lenin sottolinei nell'antica Russia, nonostante un cinquantennio non possa certo giustificare il termine antica, implicitamente sembrerebbe negargli un esistenza più prossima, ma Lenin, per la verità, non adopera praticamente mai il termine obrok, mentre nello "Sviluppo del capitalismo in Russia" utilizza il termine otrabotki in cui sintetizza tutte le sopravvivenze del servaggio. Bordiga, in "Struttura economica e sociale della Russia d'oggi", cita l'obrok soltanto quando, constatando, (ma guarda un po'), la similitudine «colcos» - «barscina», lo ricorda quale forma tributaria sotto lo zarismo. Alexander Gerschenkron invece, ne "Il problema storico dell'arretratezza economica", ne estende il significato al «riscatto» che il contadino deve pagare per la sua liberazione, cioè attribuendogli lo stesso significato originario di quando, alcuni secoli addietro, con obrok si identificava la tassazione delle attività extraagricole nei recenti acquisti territoriali (le cosidette "Terre dei Mari"), cioè nel senso di tributo ecc... In molte delle opere in italiano sulla storia russa, il termine obrok, come otrabotki, non è riportato neanche nel glossario, peraltro spesso assente.
Naturalmente non è una questione di terminologia, ma, dopo la riforma, di un baratto, di affittanza della terra.
Dopo la riforma una parte delle «anime», non ha più in usufrutto fonti, pascoli, boschi, ecc.. E' la parte di terra defraudata alle «anime», le terre stralciate, a vantaggio dei proprietari terrieri. Per poter usufruire di tali, indispensabili terre, queste «anime» possono ora soltanto affittarle. La prestazione con cui viene retribuito tale affitto è quella più volte richiamata da Lenin ne "Lo sviluppo ...", col termine di otrabotki «in senso stretto», cioè lavorando sul terreno dell'ex pomesciki, forma che Lenin considera un «residuo», un'equivalente della barscina, rendita retribuita in lavoro.
Lenin ne indica svariate forme ed applicazioni, tutte con specifiche denominazioni e, teoricamente, gradi di «sopravvivenza», spaziando da quella più vicina, «in senso stretto», a quelle tipo «mezzadria», in cui il prodotto del terreno affittato è ripartito col proprietario terriero in vari modi e percentuali, sino a quella più lontana del «lavoro a cottimo», in cui spesso il lavoro del contadino poteva anche essere retribuito in denaro.
Sono queste ultime forme ad essere ritenute da Lenin l'adattamento dell'arretrata agricoltura russa all'insorgenza capitalistica e, come tali, sia pure parzialmente, incluse nel processo di proletarizzazione agricola, sbagliando. Ed è così che «Lenin giunge ad una classificazione - anche statistica - del proletariato, che si distingue non solo da quella di Trotzky ma pure da quella tradizionale di un Kautsky», e, purtroppo per Cervetto (di cui crollano anche tutte le altre, «importantissime», conseguenze che ne trae), anche dalla reale, debole, portata del processo di proletarizzazione.
Quindi, dopo la riforma, l'otrabotki «in senso stretto» è possibile sulle «terre stralciate», mentre al sud, grazie ad una più alta fertilità del suolo e ad una minore assegnazione di terra ai contadini, sono più frequenti anche le forme non «in senso stretto».
Sulle terre in cui invece era utilizzato l'obrok, l'applicazione dell'otrabotki non avrebbe avuto alcun senso dato che l'obrok prevale qui, proprio perché la fertilità del terreno è minore al punto da rendere sconveniente la barscina, e dunque anche i suoi succedanei. Se qui la rendita precapitalistica in denaro era presente prima della riforma, nessuna pratica agricola utilizzabile, come nessuna logica storica, lascia intravedere una sua qualche inutilità dopo, anzi. La sua mutazione consiste ora nell'oggetto del pagamento. Prima l'obrok retribuiva gli obblighi, ora il pagamento del «riscatto» e/o l'affitto di ulteriore terra per l'anima, retribuzione resa anche relativamente più facile, grazie al lavoro nelle fabbriche sorte con l'industrializzazione zarista.
Noi dunque teniamo distinti i significati di otrabotki e di obrok che conserviamo, nel periodo successivo alla riforma, essendone documentate le effettivamente distinte, rispettive forme concrete di retribuzione della rendita.
I fattori che realizzavano un'effettiva proletarizzazione devono essere cercati nell'ambiente circostante quello agricolo. Sia tra i contadini che praticavano le otrabotki non «in senso stretto», sia tra quelli che praticavano l'obrok, era anche possibile che queste attività li rendessero effettivamente indipendenti dal proprio lotto di terra. Anche a non voler necessariamente considerare il tempo necessario per un tale processo, la quota di questi non poteva che essere una minoranza fortunata, cioè poteva essere inclusa nel processo di proletarizzazione soltanto una quota minima di questa forza lavoro potenziale, dato che l'obrok veniva retribuito prevalentemente, e tradizionalmente, col lavoro artigianale o con l'«agricoltura "fuori casa"». Anche i contadini assegnatari del «lotto del povero» che, non avendo accettato di pagare un riscatto, avevano ricevuto una quota di terra così miserabile da poter esserne facilmente strappati, erano comunque una minoranza.
Ma il reale ostacolo alla proletarizzazione contadina, alla sua ristrettezza non risiedeva nell'agricoltura ma nell'industria.
Trotzky in "1905" riporta la seguente tabella:
Gruppi d'imprese minerarie, di fabbriche e di officine | Imprese | Operai migliaia | Operai % |
meno di 10 operai | 17.436 | 65,0 | 2,5 |
da 10 a 49 | 10.586 | 236,5 | 9,2 |
da 50 a 99 | 2.551 | 175,2 | 6,8 |
da 100 a 499 | 2.779 | 608,0 | 23,8 |
da 500 a 999 | 556 | 381,1 | 14,9 |
da 1000 in più | 453 | 1.097,0 | 42,8 |
Totale | 34.361 | 2.562,8 | 100,0 |
Ancora nel 1895 il ministero delle Finanze negava l'esistenza di un proletariato.
Considerati in una prospettiva statistica più che ideologica, tali atteggiamenti non appaiono del tutto donchisciotteschi. Nel 1860 gli operai dell'industria formavano lo 0,76% della popolazione totale. Nel 1900, dopo i cambiamenti apportati dal boom industriale del decennio precedente, essi ancora incidevano solo per l'1,28% (1.700.000 persone) e nel 1913 solo per l'1,4% (2,3 milioni). Anche le cifre più alte di 2,2 milioni per il 1900 e 4,3 per il 1913, fornite dagli storici sovietici per la classe operaia industriale (lavoratori delle fabbriche, delle miniere e delle ferrovie), non devono aver costretto ad accettare, almeno in un primo tempo, un mutamento di percezione del problema e di priorità fra coloro che negavano l'esistenza di un vero proletariato.
Se certamente sia Trotzky, sia Lenin, possono valutare positivamente il livello di concentrazione operaia, aspetto su cui non ci soffermiamo, non si può d'altro canto non considerare che per proletarizzare, anche ai ritmi più ottimistici, milioni di contadini non sarebbe stato sufficiente neanche l'investimento di tutta la sovrapproduzione di plusvalore europea. Soltanto un impossibile molecolare sviluppo capitalistico, strozzato dall'investimento estero e dall'ormai inesorabile altezza della composizione tecnica industriale, fenomeno ben analizzato da Trotzky alla voce composizione organica, avrebbe potuto assolvere un tale compito.
Questo aspetto fondamentale, determinante, non determina di per sé l'esistenza oggettiva di condizioni agricole più, o meno sfavorevoli alla proletarizzazione, ma la loro forza, la loro capacità di resistenza, è certamente determinata per contrasto, per differenza, da quella dell'industria di attrarre, di strappare il contadino dal suo nadiel. In qualsiasi prospettiva storica si ponga tale questione, a breve o a lungo termine, ciò non rende politicamente insignificante la natura della sovrappopolazione agricola, tanto meno la sua natura sociale, il suo modo di rimanere abbarbicata alla terra.
L'«errore» di Lenin consiste, come spiega egli stesso, nell'aver considerato tutto ciò che non era residuo «in senso stretto» come «capitalistico». Errore che, spiega sempre pazientemente Lenin, non riguarda solo la natura dell'attività contadina sul nadiel ma anche quella svolta sulle terre dei grandi proprietari terrieri, degli ex pomesciki, la cui maggioranza non aveva la possibilità, né l'interesse, di condurre capitalisticamente i propri fondi. Non si può quindi, a rigore, parlare di «sopravvivenze» o di «residui» precapitalistici ma di dominio di particolari, specifiche forme di lavoro precapitalistico, e più precisamente asiatico (obscina, nadiel, otrabotki, obrok ecc.). E' caso mai la rara agricoltura capitalistica, cui non sempre erano sufficienti coltivazioni favorevoli, quali orticoltura, barbabietola, cotone ecc., a rappresentare un'isola capitalistica nella palude agraria russo-zarista.
In ogni caso l'errore non è comunque trasmesso al solo Cervetto. Anche storici come Valentin Gitermann, la cui "Storia della Russia" è ampiamente nota non solo in Italia, assumono l'errore di Lenin ma, non pretendendo di essere dei politici e tanto meno dei marxisti, sono in qualche modo giustificati per la non curanza delle successive riflessioni di Lenin stesso.
L'esposizione sintetica che il Gitermann compie facilita comunque la nostra esposizione e la comprensione dell'errore stesso, sopratutto perché Gitermann non ponendosi le finalità di Lenin, non muove alcuna obiezione sulle basi statistiche degli Zemstvo, in cui data la forte influenza populista, e zarista, erano impostate sulla ripartizione in nadiel. Impostazione che Lenin critica ferocemente ritenendo faccia velo allo sviluppo capitalistico, e che quindi ne "Lo sviluppo capitalistico in Russia" seleziona, rielabora e riconsidera costantemente. In questa critica Lenin avrebbe dovuto considerare che, al di là delle rielaborazioni e riconsiderazioni, il fatto stesso che su quella base fosse possibile una statistica, cioè una quantificazione, era un fatto che non poteva comunque non riflettere un fenomeno oggettivamente esistente. Che tutto ciò che traspariva dalla criticata impostazione, nonostante luccicasse, non fosse necessariamente oro.
D'altra parte Lenin aveva tutte le ragioni di contrastare ferocemente l'impostazione, reazionaria, dei populisti. Il dispotismo autocratico produceva spontaneamente, per reazione, un'opposizione rivoluzionaria, almeno soggettivamente, tradizionalmente populista. Il Partito Operaio Socialdemocratico Russo nasce, si forma, nella lotta contro questa tendenza, per reclutare al marxismo queste leve di rivoluzionari. Lenin è l'artefice principale di questa strenua, quanto misconosciuta battaglia, sia sul piano teorico che su quello pratico, coinvolgendo il bolscevismo anche nelle famose «rapine», sino ad allora esclusiva dei populisti, che tanto scandalizzeranno i menscevichi. Il POSDR diventerà bolscevico piuttosto che menscevico, anche e soprattutto, grazie alla vittoria di Lenin in questa battaglia.
E' anche la necessità di questa lotta, cui Lenin si sottomette, a subordinare ciò che a noi può anche apparire come una distattaccata analisi, ma che per Lenin è anche un necessario compito rivoluzionario: smentire alla radice un'ideologia, che non è solo populista ma anche ufficiale, zarista.
In una nota allo "Sviluppo .." Lenin precisa, in riferimento ai nadiel, all'obscina:
Chi vuol rappresentare un qualsiasi fenomeno vivo nel suo sviluppo deve inevitabilmente e necessariamente affrontare il dilemma: o precorrere i tempi o rimanere indietro. Non c'è via di mezzo. E se tutti i dati indicano che il carattere dell'evoluzione sociale [capitalistica. ndr] è precisamente questo, che tale evoluzione è già molto inoltrata (cfr. secondo capitolo); se inoltre sono state chiaramente indicate le circostanze e gli istituti che intralciano questa evoluzione (tassazione esorbitante, isolamento di ceto dei contadini, mancanza della completa libertà di mobilizzazione della terra, di spostamento e migrazione), allora non è sbagliato affatto precorrere i tempi.
Ciò spiega, anche se non giustifica affatto, l'errore (l'evoluzione non era molto inoltrata) che Lenin, da rivoluzionario, corregge politicamente, nel programma di partito, impedendogli perpetuare l'errore stesso. E' la lotta politica a porlo nella condizione di spingere, piuttosto che frenare, precorrendo i tempi.
Tornando a Gitermann, questi, descrivendo l'«impoverimento dei contadini» li raggruppa, sulla base di una non meglio precisata «indagine» degli Zemstvo del 1879, in tre fasce: «1) Famiglie contadine povere (quattro persone)»; «2) Famiglie meno povere (13 persone)» e «3) Famiglie di contadini agiati (16 persone)», che immaginiamo essere: sino a 4, sino a 13 ecc.. Risparmiandoci comunque le cifre di ogni raggruppamento, Gitermann prosegue:
Da queste cifre risulta evidente che in tutte e tre le categorie il reddito lordo dell'agricoltura era ben lontano dal bastare anche alle spese più necessarie.
...
Anche famiglie di contadini agiati, che per l'alimentazione spendevano a testa, in confronto alla prima categoria, più del doppio, e che, oltre al terreno proprio, coltivavano mediante braccianti campi presi in fitto, chiudevano con considerevoli disavanzi.»
Anche per Gitermann «braccianti», che sarebbero «assunti» in costante perdita, e su cui vale qui quanto detto sul "salario", frutto di un baratto piuttosto che di uno scambio forza-lavoro capitale. Queste «assunzioni» lungi dal rappresentare una qualche contrapposizione rientravano facilmente nella categoria della «solidarietà di villaggio» grazie alla quale, sia l'uno sia l'altro, ricavavano più valori d'uso possibile dalla propria attività. La stessa classificazione delle famiglie contadine, in realtà patriarcali, dimostra quanto sia pretenziosa la definizione di «agiate». I raggruppamenti stessi, «quattro persone», «13 persone», «16 persone», evidenziano infatti la base reale della «differenziazione», che non è affatto una differenziazione «capitalistica», in borghesia e proletariato agricolo. E' una differenziazione asiatica, dovuta alla ripartizione della terra che l'obscina attuava sulla base delle necessità familiari. Più teste più terra, più terra più raccolto, che gli statistici, con quattro calcoli traducevano immediatamente in «reddito». In realtà, come ammesso da tutti gli storici, Gitermann compreso, una crescente miseria accomuna i mujiki. Anche la differenziazione è locale, miserabile quanto il «reddito» di tutte le «categorie», altro che borghesia e proletariato.
Per Gitermann invece
Questa differenziazione produsse una tensione sociale, che da ultimo [da ultimo quando? ndr] doveva minare l'istituto della proprietà collettiva della comunità di villaggio, cioè la base economica del mir.
E' difficile, per chi gli attribuisce una «base economica», comprendere l'obscina, pur resa sterile dall'autocrazia, comprendere la persistente forza selvaggia della solidarietà, del legame, che si istituisce tra uomini in secoli di lotta contro una natura ostile e, negli altri uomini, predatrice. Non si tratta affatto di buoni sentimenti, magari socialistoidi e reazionari, alla populista, ma di paura, timore dell'isolamento individuale, dello stesso sentimento dello stesso istinto con cui gli gnu si difendono dall'attacco dei predatori radunandosi in branco. Miseria, epidemie, cattivi raccolti e tassazione non fanno che conservare, piuttosto che allentare, i legami, i vincoli della solidarietà dell'obscina.
Secondo Gitermann citato, gli anni: 1870, 1880, 1885, 1891, 1892, 1897, 1899, 1901, 1906, 1911, sono anni di cattivi raccolti. Per gli anni '90 sino al 1901, possiamo parlare di vere e proprie carestie (provocate dalla rapina della campagna per finanziare l'industrializzazione), in cui la mortalità giunse al 40 per mille nel 1892, dal 27 per mille di inizio '800. Che, in questa situazione l'obscina, nella barbara ripartizione delle terre in nadiel, potesse attribuire a ciascuna famiglia strisce di terra della relativamente migliore, della mediana e della peggiore, senza che possano essere citati casi di assassinio dei vari starosta (anziano, capo dell'obscina) e dei loro scrivani, di stragi assembleari nelle varie obscinnj, è dimostrazione concreta, non ideologica, della persistente forza e non di un indebolimento dell'obscina.
E' invece possibile rintracciare assassinii di kulak, che Lenin include nei «residui» quali usurai, le cui motivazioni non escludevano certo la loro natura di creditori, e senza dimenticare che i kulak, arricchendosi grazie all'usura, emergevano, sostituendosi di fatto alla figura dell'ex pomesciki. Senza il legame dell'obscina non sarebbe stato neanche immaginabile che tali assassinii potessero essere compiuti restando inpuniti.
Al contadino russo è certo non mancasse niente in fatto di ignoranza e barbarie, gli è però del tutto estranea la grettezza e l'invidia, individuale, che il contadino piccolo borghese aggiunge al proprio repertorio sulla base della proprietà privata, cioè della concorrenza per accaparrarsi definitivamente la terra; proprietà privata che in Russia era sostanzialmente assente.
Intanto, nella debole, lenta, proletarizzazione russa, nelle forme con cui il lavoro retribuisce la rendita, abbiamo rintracciato sul versante di un presunto proletariato, ciò che specularmente, sull'altro versante, quello di una presunta borghesia nazionale, nella nota precedente abbiamo ricondotto alla sua natura precapitalistica nonostante l'indispensabile uso della tecnica industriale.
Di Caro Carlo, Settembre 2006.