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Note di metodo nello studio della natura sociale dell'URSS (4)
Russia Zarista: nobiltà burocratizzata e burocrazia nobilitata.



Un isolamento reciproco così assoluto delle comuni rurali, che genera in tutto il paese interessi bensì omogenei, ma tutt'altro che comuni, è la base di partenza del dispotismo orientale; e questa forma sociale, dovunque è prevalsa - dall'India fino alla Russia - l'ha sempre prodotto, vi ha sempre trovato il suo coronamento. Non solo lo Stato russo in genere, ma la sua forma specifica, il dispotismo zarista, lungi dall'essere sospeso in aria è dunque il prodotto logico e necessario della struttura sociale con cui il sig. Tkaciov pretende che non abbia «nulla in comune».

Riportiamo ancora una volta questa citazione di Engels (1875, dal Volksstat) perché chiara ed essenziale. Con essa Engels non solo sintetizza, nei termini genere e forma specifica, la concezione materialistica della storia, come abbiamo avuto già modo di sottolineare (cfr. la nota 1: Bordiga feudalesimo statale della Russia zarista), ma anche per come indichi nell'«isolamento reciproco così assoluto delle comuni rurali ... la base di partenza del dispotismo orientale». Engels descrive quindi il dispotismo orientale come il coronamento dell'isolamento rurale «così assoluto» quanto prevalente. Esula dal nostro argomento l'altrimenti doveroso approfondimento del concetto adoperato da Engels di prevalenza. Dovremo tornarci perché è un concetto che percorrerà tutta la storia Russa, URSS compresa, assumendo un ruolo decisivo nella determinazione della sua natura sociale.
Per il momento restiamo fermi al «coronamento dell'«isolamento reciproco», cioè al «dispotismo orientale». La determinazione originata dall'«isolamento reciproco» produce, nel nostro caso, un dispotismo. In altre parole la vittima produce il suo oppressore. E' un rapporto del tutto estraneo a quello delle moderna democrazia, anche quando questa assume una forma dittatoriale. In quest'ultimo caso, una frazione od una classe della società, opprime anche politicamente, l'altra parte, frazione o classe che sia. Quindi questa dittatura resta, pur sempre e comunque, una rappresentanza d'interessi sia pure di una sola parte della società di cui l'altra è, più o meno brutalmente, vittima. Cioè la vittima, qui, non determina l'oppressore, per quanto spesso possa esserne stata vilmente od inconsapevolmente complice.
Per ritrovare nella società moderna un fenomeno simile a quello prodotto dall'«idiotismo rurale», di cui stiamo trattando, dobbiamo ricorrere ad una similitudine ricavabile dalla ben più ristretta esistenza dell'attuale «idiotismo finanziario», cioè del mai tanto decantato «azionista» quando è impossibilitato a raggiungere la cosiddetta «quota di controllo». L'idiota determina qui, in forza del suo contributo azionario, un interesse opposto al suo sotto forma di sindacato di controllo che non lo rappresenta, o sotto forma di management, da cui di fatto si trova a dipendere, nonostante la comune, devota credenza nel Dio denaro.
Per questo, nelle precedenti note sullo zarismo, abbiamo sottolineato come l' «ukase» sulla «liberazione dei servi» non rappresentasse alcuna sanzione di un sottostante sviluppo delle forze produttive. Ciò che vogliamo ribadire è che il rapporto esistente tra il diritto, quindi anche la legislazione in cui rientra l'ukase liberatorio, e la società civile, l'economia, era nella Russia zarista ben diverso da quello cui ci ha assuefatti l'odierna società capitalistica. Per la Russia infatti, si può solo impropriamente parlare di «diritto», di legislazione, essendo dominante, essenzialmente, il «diritto consuetudinario». La ricchezza sociale russa, pur essendo naturalmente plusvalore, era rappresentata da rendita fondiaria, ragion per cui la natura stessa della ricchezza alimentando e determinando lo stato zarista, lo costringeva ad un incessante moto di conquista di nuovi territori e nuove colture agricole. E' un aspetto che non stiamo seguendo nelle nostre note, ma tutta l'esistenza dell'autocrazia zarista è percorsa da guerre in tutte le direzioni. Quando, negli anni '50, l'«elemento estraneo» all'ambiente sociale russo, si presenta nelle vesti della non drammatica sconfitta nella guerra di Crimea, il meccanismo espansionistico russo è potenzialmente inceppato. L'«ukase» di Alessandro II, mira all'unico scopo di prevenire il blocco, se così si può dire, di un tale meccanismo riformando l'intero apparato statale.
E' quindi deformante ogni ricostruzione storica che, ricostruendo le vicende dell'«ukase liberatorio», le presenti come determinate da un «movimento contadino» in realtà privo di ogni e qualsiasi, pur vaga, autonomia.
Paradossalmente è piuttosto, per così dire, la giurisprudenza, cioè la preparazione e l'emissione dello stesso «ukase liberatorio», a mettere in moto i contadini piuttosto che il contrario. Il carattere subordinato dei moti contadini è ben compreso dal Venturi, primo capitolo del suo II volume de "Il populismo russo - Dalla liberazione dei servi al nihilismo", che riferendosi ad un alta cifra di casi di «insubordinazione contadina», sottolinea:

Quella cifra così alta si spiega pensando che nel periodo decisivo della preparazione della riforma contadina, le autorità centrali chiedevano notizie più particolareggiate e le autorità locali riferivano anche su avvenimenti che, negli anni e nei decenni precedenti, avrebbero certo passato sotto silenzio.

Sopravalutando il «movimento contadino» lo zar stesso non faceva che portare argomenti alla propria riforma contro le resistenze della nobiltà terriera. L'improduttività del lavoro servile rendeva però vana ogni resistenza. La stessa nobiltà terriera sfruttatrice, la cui maggioranza dei propri servi era ormai sotto «ipoteca» per i debiti contratti con lo zar, non poteva che subire le riforme.
Del resto per quanto potesse influire sul «movimento contadino», nessun decreto al mondo avrebbe potuto liberare i contadini dall'«isolamento reciproco così assoluto delle comuni rurali», la cui barbara esistenza veniva anzi istituzionalizzata dalla «liberazione» stessa. Concretamente l'«abolizione della servitù della gleba» non intaccava l'asservimento del contadino all'obscina, anzi ne aggravava le condizioni sociali, scaricando sull'obscina i compiti fiscali precedentemente assolti dal pomesciki, per giunta aggravati dal costo della riforme stesse. Così il contadino, sia che avesse aderito alla riforma, individualmente o tramite il mir, sia che l'avesse subìta accettando «la parte del povero», oltre all'imposta aumentata doveva versare allo Stato anche il riscatto (obrok) per le terre nobiliari cui era stato asservito. Ecco come Henry Troyat descrive sinteticamente la situazione, nel suo solo apparentemente modesto, "La vita quotidiana in Russia al tempo dell'ultimo zar":

Da quel momento ogni legame fra i contadini e l'antico padrone era stato rotto, ma i contadini restavano debitori verso lo stato che, per garantire il suo credito, aveva imposto al villaggio, rappresentato dall'assemblea popolare del mir, la responsabilità collettiva del pagamento. Un tempo era il signore che garantiva la riscossione delle imposte: era brutale e spesso faceva battere il pagatore negligente ma alla fine versava al suo posto la tassa dovuta; se era buono, poi, si lasciava intenerire e assumeva egli stesso il debito, per pietà o per pigrizia. Il mir, invece, era intrattabile. Questa assemblea composta da contadini non ammetteva nessuna scusa nei confronti di coloro che, per incapacità o sfortuna, compromettevano gli interessi della comunità.

Pur restando profondamente legato, vincolato, alla terra il contadino era comunque «liberato» dalla servitù. La questione della servitù, cioè della sua abolizione, non era propriamente del tutto nuova. Marx ed Engels avevano già riscontrato «scomparsa» e «ricomparsa» della servitù della gleba nella Germania feudale. In una lettera del 15 dicembre 1882, commentando un lavoro dello storico Maurer, Engels scrive a Marx:

L'opinione che vi è esposta sulle condizioni dei contadini nel medioevo e sull'origine della seconda servitù della gleba a partire dalla seconda metà del secolo XV, la ritengo nel complesso irrefutabile.
....
Fra l'altro la generale reintroduzione della servitù della gleba è uno dei motivi perché in Germania nei secoli XVII e XVIII non poté sorgere un'industria. Primo, la divisione del lavoro a rovescio nelle corporazioni, l'opposto di quella della manifattura: invece che all'interno delle officine, il lavoro è diviso fra le corporazioni. A questo punto ebbe luogo in Inghilterra un'emigrazione nella campagna non corporativa. Questo venne impedito in Germania dalla trasformazione dei rurali e degli abitanti dei borghi agricoli in servitù della gleba.
....
Le altre ragioni che hanno cooperato a tenere la manifattura tedesca a un basso livello qui le ometto.

Engels si sofferma su questi aspetti, come scrive ancora il giorno successivo a Marx, «perchè tu avevi espresso in passato un'opinione diversa al riguardo.».
Dopo aver illustrato una delle conquiste del materialismo storico, cioè la scoperta di una delle determinazioni sociali della servitù della gleba, più precisamente nella lotta delle corporazioni contro la, sia pure arcaica, libera attività, il 22 dicembre Engels può scrivere a Marx:

Mi fa piacere che riguardo alla storia della servitù della gleba «concordiamo», come dice lo stile affaristico. Certamente la servitù della gleba e la servitù non sono una forma specificamente medievale e feudale, l'abbiamo dappertutto o quasi dappertutto là dove i conquistatori fanno coltivare la terra per sé dagli antichi abitanti: nella Tessaglia per esempio molto presto. Questo dato di fatto ha oscurato lo sguardo perfino a me e a parecchi altri nelle indagini sul servaggio medievale; era troppo bello fondarlo semplicemente sulla conquista; in tal modo la cosa sarebbe stata tanto bellina e liscia.

Chi ci legge ci consenta ancora un inciso, questa volta per i cultori degli «errori di Marx». Apprendiamo qui, da Engels che, in questo come in altri casi, Marx non era esente da «errori». A questi «cultori» non rimproveriamo, né nella sostanza né nella forma, la «tesi» che anche Marx potesse «sbagliarsi». Di costoro respingiamo la congenita impossibilità di correggere, non diciamo un errore di Marx, ma neanche mezzo. Fine dell'inciso
Ma se restiamo alla sostanza della scoperta di Engels, non possiamo non rilevare che tutto il dibattito sulla natura sociale dell'URSS è rimasto incagliato sul presupposto che la Russia zarista fosse «feudale», o «semifeudale», e come tale suscettibile di tutti gli sviluppi «noti», cioè di evolvere capitalisticamente. Quindi da qui, proseguire poi verso il «socialismo in solo paese», per tal'uni, verso il «comunismo reale» per tal'altri, oppure, per altri ancora più modestamente e disinteressatamente, verso un impossibile «Capitalismo di Stato», o in una nuova forma di «Stato Operaio degenerato». La cosa appare tanto più «bellina e liscia» in quanto queste valutazioni sulla Russia si basano essenzialmente, quando non esclusivamente, sulla presenza della servitù della gleba nella Russia zarista. Servitù che, presupposto fondamentale delle loro conclusioni, sarebbe rimasta «sostanzialmente» tale, anche dopo la «riforma».
Ma Engels ci dice invece che, comunque, anche se il servo non fosse stato «sostanzialmente» liberato, ma così non era, la presenza di servitù della gleba non basta, non è sufficiente a caratterizzare un modo di produzione come feudale, e non perché trattasi di un unico fattore, ma perché alla sua determinazione possono concorrere cause di diversa natura anche nei diversi ambienti sociali, anche in Tessaglia, in cui si trovano ad agire.
A mischiare le carte in tavola, nel caso russo, abbiamo ovviamente anche una nobiltà, socialmente speculare alla servitù della gleba. Non sorprende quindi che storici e letterati ma anche gli stessi personaggi che animano la storia russa, persino i populisti, parlino sempre di ançien regime, finendo col descrivere implicitamente la società russa sulla base della feudalità francese.
Ecco invece come Henry Troyat descrive sinteticamente le classi superiori russe:

Era stato Pietro il Grande che, per meglio disciplinare il suo popolo, aveva creato il cin [n.d.r. qui, come altrove, abbiamo usato il semplice carattere "c" essendo impossibile utilizzare l'accento circonflesso rovesciato del russo che il computer non annovera.], la tavola delle gerarchie. Tale strana istituzione apriva l'accesso alla nobiltà a persone che non erano nobili per nascita. Ogni servitore dello stato, quale che fosse la sua nascita, poteva innalzarsi di grado in grado fino ad ottenere un titolo onorifico elevato. La scala dei valori così annoverava quattordici cin che andavano, per i civili, dal miserabile registratore di collegio all'onnipotente cancelliere dell'impero e per i militari dall'alfiere al feldmaresciallo.
....
In Russia dunque il funzionario era etimologicamente un cinovnik, una persona dotata di cin, cioè di un rango e non, come in Francia, una persona con una funzione.
Così un giovane di origine borghese [n.d.r. inteso come civile], dopo qualche anno di assiduo lavoro in un ufficio, poteva diventare eguale in rango a un maggiore o a un capitano senza aver mai prestato servizio nell'esercito. Tuttavia, anche se era registrato nella gerarchia dei ranghi, veniva considerato veramente un nobile solo dopo l'accesso all'ottava classe.
....
Distribuendo i privilegi, regolando il passaggio da una categoria all'altra, lo zar si assicurava la sottomissione dei suoi servitori. Tutti, nel paese, erano divisi e suddivisi in una scala gerarchica infinita. Dal principe più autentico all'ultimo dei contadini, ogni individuo aveva un posto e un suo numero d'ordine nel grande schedario dello stato.

Nella semplicità della sua esposizione Troyat illustra la nobiltà russa come nobiltà frazionata. E' una descrizione che consente di chiarire molta parte del processo storico che stiamo esaminando.
La nobiltà stessa si divideva, secondo il criterio usato da Troyat, in due specie: la nobiltà ereditaria e quella non ereditaria, acquisita. La nobiltà ereditaria risaliva, per alcune famiglie, all'epoca dei primissimi sovrani che avevano regnato sul paese.

Il nome dei più antichi compagni degli zar (o boiardi) era scritto in un registro chiamato «sesto libro» (sestaja kniga) che si fermava agli inizi del XVIII secolo. Per indebolire la potenza di questi illustri servitori della corona, che si arricchivano e si rafforzavano sempre più cogli anni, Pietro il Grande aveva istituito la tavola delle gerarchie e si era arrogato il diritto di nominare principi conti e baroni. I suoi successori ne avevano continuato la politica conferendo la nobiltà sia ereditaria che personale ai funzionari.

Troyat descrive così la nobiltà seguendo i canoni, o meglio, secondo l'idea che della nobiltà può avere un europeo, cioè secondo canoni ereditari, quindi la spartisce in due tronconi. In realtà però essa si compone, come minimo, di almeno altri due tronconi, l'esercito, dal quale la nobiltà trae origine e giustificazione storica, ed il clero ortodosso, sorta di nobiltà parallela, su cui poggia lo stato russo non meno che su quella dichiarata. Le osservazioni del Troyat rappresentano comunque un progresso effettivo nell'analisi, cioè nella separazione, nella distinzione, dei ruoli sociali determinati dalla specifica forma zarista del modo di produzione asiatico, e sono indispensabili alla comprensione della sua dinamica storica.
Tutta la nobiltà era comunque sottomessa alla zar. Lo stesso lignaggio dei boiari era dovuto all'essere stati, in origine, compagni dello zar. Il loro rafforzamento ed arricchimento non derivava dallo sfruttamento di una propria forza indipendente ma dal servizio di stato, cui lo zar stesso li obbligava. Nessun nobile era «re nel suo castello» come quelli del medioevo, anzi di castelli non ne esistevano proprio e, nelle loro periodiche sollevazioni, i contadini dovevano accontentarsi di bruciare semplici «ville». Quindi così come lo zar concedeva a questi «nobili» un maggior peso, così lo revocava, secondo le sue necessità. Era stato il continuo, progressivo e necessario, congenito dilatamento dello stato russo che aveva posto gli zar, con più evidenza a partire da Caterina II, nella necessità di costruirsi un apparato di controllo burocratico sempre più esteso. L'introduzione della servitù della gleba era stata adoperata dallo zarismo proprio in questo senso, per alimentare, letteralmente, l'apparato di controllo statale di cui, in quel momento, la nobiltà terriera diveniva perno. Ma quel momento era passato, la guerra di Crimea aveva dimostrato l'inadeguatezza dell'apparato statale zarista nella sua lotta per la sopravvivenza come quella del servo come soldato. Alessandro II, con le sue riforme tenta di adattare l'apparato statale allo sviluppo economico, demografico e militare, delle potenze rivali europee.
In una precedente nota, avevamo già ricondotto la «modernizzazione» di Alessandro II nell'alveo dispotico. Troyat ci consente però di descriverne meglio anche gli effetti sull'apparato statale che, per la Russia, rappresenta in effetti quasi tutta la società non contadina. Ecco come Troyat sintetizza gli effetti della «modernizzazione» ad inizio secolo:

Sotto il regno di Alessandro II, l'emancipazione dei servi aveva rovesciato la posizione sociale della nobiltà. Alessandro III le aveva restituito una certa importanza affidandole, nella persona dei marescialli e dei capi cantone, la sorveglianza dei distretti e delle province e istituendo una banca della nobiltà, che avrebbe dovuto aiutare i proprietari terrieri concedendo loro crediti a buon mercato.
Attualmente, secondo Alexandr Vasilevic [n.d.r. un personaggio dello pseudo racconto di Troyat] la nobiltà russa non aveva più alcun potere in quanto casta, ma i suoi rappresentanti più eminenti avevano una precisa influenza sugli affari di stato grazie ai posti elevati che occupavano nella pubblica amministrazione.

Nella nota su Populisti e contadini nella Russia zarista, avevamo lasciato "alla storia successiva" il compito di chiarire il ruolo, apparentemente «reazionario» di Alessandro III nei confronti delle «riforme» di Alessandro II. Come abbiamo dimostrato in quella sede le riforme di Alessandro II avevano ben poco di «progressista». Che Alessandro III non potesse riportare indietro ciò che non era andato avanti, era per noi dimostrato sulla base della istituzionalizzazione, ossia sulla conservazione, del mir per quanto riguarda i contadini e sulla conseguente decadenza della nobiltà terriera, in quanto nobiltà, a seguito della «liberazione». All'elemento determinante ora Troyat consente di aggiungere anche l'elemento determinato su cui continuava a sorreggersi tutta l'impalcatura statale zarista: la nobiltà non ereditaria. Cioè la burocrazia nobilitata, il cui ruolo sociale è mistificato, incomprensibile, solo se si resta ancorati al ruolo «odierno» della burocrazia. Come «restaura», infatti, il ruolo della nobiltà terriera Alessandro III? Riducendola ulteriormente a burocrazia statale, sia pure con funzioni di controllo. Riducendone, ma non declassando, una parte a «marescialli e capi cantone», ed elargendo un caritatevole credito agricolo all'altra. Dunque attuando, con più o meno rigore, l'identica politica di Alessandro II, che poi non era altro che quella, ormai tradizionale, sancita da Pietro il Grande con l'istituzione delle tavole della gerarchia. Del resto solo così si spiegano tutte le riforme di Alessandro II, ovvero con la necessità di assolvere con personale civile, burocratico, alle vecchie funzioni, sino ad allora privilegio della declassata nobiltà di casta (come la definisce Troyat), come alle nuove funzioni, istruzione e sanità fondamentalmente, il cui scopo è trarre dallo sconfinato analfabetismo il personale burocratico, nobilitabile, indispensabile all'attuazione delle riforme stesse.
Per inciso ma soprattutto per esempio, ricordiamo qui, come da alcuni sia quasi rimproverato a Lenin di provenire da «famiglia nobile». Al rango della nobiltà, con tanto di «dotazione di terra», il padre di Lenin giunse grazie al suo lavoro nel campo dell'istruzione riformata. La madre di Lenin dovette poi vendere la terra ricevuta, per poter aiutare i figli ribelli durante i loro frequenti periodi di detenzione ed esilio. Fine dell'inciso.
La nobiltà personale dunque poteva essere ereditaria e non ereditaria. Quest'ultima richiama direttamente la figura del mandarino cinese che poteva assurgere a tale carica solo vincendo un vero e proprio «concorso», ossia superando precisi esami di cultura ecc.. Per quanto ci riguarda però, la cosa ha un interesse che qui limitiamo al caso russo. Cioè in questa sede e per il momento, non ci interessa comprendere la derivazione della figura della nobiltà personale non ereditaria. Il dominio mongolo, da cui la Russia era sorta, potrebbe ben aver veicolato una figura del genere, ma anche la struttura del clero russo potrebbe aver avuto un suo peso essendo anch'esso suddiviso in clero secolare o «bianco», e monastico o «nero». Nel clero russo, ortodosso, il celibato era esclusiva dei monaci, da cui si reclutavano gli alti dignitari ecclesiastici, percorrendo una «carriera». Il sacerdote, pope, era invece tenuto al matrimonio ed era vincolato alla chiesa d'appartenenza, quindi senza che potesse percorrere una carriera, neanche geografica. Tutto il clero era selezionato dalla partecipazione agli studi in seminario. Non era quindi un clero di casta, anche se, come dice Troyat, riferendosi ai sacerdoti ordinari, sposati, in una nota:

La loro sorte era così poco desiderabile che i seminaristi venivano reclutati solo tra i figli di preti. Il clero diventava così una casta, una grande famiglia nella quale, di generazione in generazione, si ritrovavano gli stessi nomi.

Quindi Troyat ci descrive, di fatto, una tendenza del clero a trasformarsi in casta ma che di fatto non lo era e, per ciò che qui ci interessa, non lo era originariamente. Solo frequentando, dopo il seminario, l'Accademia e pena il celibato, si aprivano infatti gli accessi al clero monastico. Di fatto nel clero ortodosso quindi la carriera, prescindendo da tutte le altre possibili influenze, era determinata dal merito acquisito con gli studi o, comunque, doveva subire questo passaggio indipendente dal «lignaggio» affinché potesse essere possibile.
Il carattere della nobiltà personale non ereditaria, come quello del clero ortodosso, a noi può apparire relativamente «moderno» rispetto al feudo nobiliare o cardinalizio, ma non lo era affatto, neanche rispetto alla nobiltà di toga francese le cui funzioni erano acquistate, comprate. La sua origine è barbara. Soltanto con un diverso sviluppo, ad esempio in quello che condusse al medio evo, l'appropriazione, o meglio l'accaparramento privato, delle funzioni politiche e religiose delle tribù germaniche, riuscirà a trasformarle in ereditarie, dando luogo alla nobiltà ed anche al clero, sia pure subendo profonde influenze residuo della romanità conquistata.
Il fatto stesso che in Russia, un tale sviluppo si fissi invece nelle prerogative dello zar, piuttosto che in quelle di una casta nobiliare più o meno indipendente, non fa che ribadire la sua natura sociale asiatista, la sua differenza dal medio evo europeo.
Ora e qui ci preme quindi tener ben ferma, come esistente, la figura di una nobiltà personale non ereditaria, perché chiarisce la dinamica sociale zarista ma anche e soprattutto perché ipoteca quella successiva allo zarismo stesso. Restiamo quindi su questa figura sociale citando ancora da Troyat.

Veniva poi la classe urbana che, in ogni città, comprendeva i cittadini notabili, i mercanti, gli artigiani e i piccoli borghesi. Ogni corporazione aveva assemblee di rappresentanti e istituzioni permanenti proprie.

Troyat descrive queste corporazioni, ma ciò che ci interessa qui è che

Il titolo di «cittadino notabile» era concesso a titolo personale o ereditario a negozianti e artigiani per i servizi resi all'economia dell'impero.

Troyat non ci dice di più, ma di fatto nella Russia zarista si poteva diventare «titolati», cioè nobili, magari di nobiltà non ereditaria, non solo nella burocrazia, servendo lo stato, ma anche nelle attività urbane, extra agricole. Per Troyat dunque potevano accedere al titolo anche gli artigiani, senza menzionare però gli industriali. Ma l'industria russa o era troppo arretrata per distinguersi dalla manifattura, in cui il lavoro è diviso sulla base delle specializzazioni artigianali, o era troppo sviluppata, essendo d'importazione e, sempre più frequentemente, statale. In quest'ultima però il ruolo dell'industriale veniva frequentemente assolto da funzionari statali che, in quanto tali, avevano comunque accesso alla nobiltà a pieno titolo, e dunque, in questo senso, la figura dell'industriale non dovrebbe presentare ostacoli.
Per comprendere però a fondo il radicamento sociale della figura della nobiltà non ereditaria in Russia, restiamo su di un episodio ripreso dall'opera citata del Troyat, tanto più significativo in quanto avvenuto in un periodo precedente lo sviluppo industriale, successivo alle riforme, e di cui ci occuperemo in seguito.

Dimsdale, un medico inglese, era stato nominato barone per aver vaccinato l'imperatrice Caterina II e suo figlio Paolo.

In questo caso, il titolo è concesso per grazia ed acquisito per merito dallo «specialista». Cioè il titolo è concesso alla maniera russa esemplificandone le capacità di recepire «meriti» che potremmo definire europei. E' ovvio che, al livello in cui giunge alla grazia, il medico inglese ci sia arrivato solo in virtù della propria «competenza» scientifica, ascrivibile solo al capitalismo europeo, ma solo il medesimo criterio che giustifica la promozione alla nobiltà non ereditaria spiega la presenza a corte di un volgare medico, il suo utilizzo «tecnico».
Ritroviamo qui, in questo semplice episodio, l'intreccio di figure e oggetti sociali la cui lettura è apparentemente ambivalente. Come le riforme di Alessandro II, anche quest'episodio potrebbe essere letto per due lati, quello progressista e quello reazionario, quello asiatista e quello capitalistico. Ma se questa è lettura storicamente giustificata dai confini europei dell'impero russo, la costante lettura di questa commistione come tendenza, come un presunto progresso da un lato all'altro della questione, è lettura del tutto arbitraria, un errore colpevole, europeista, del lettore. Se Pietro il grande aveva dotato di una flotta, di una nuova capitale l'autocrazia russa, Alessandro III la doterà di una ferrovia, grazie al lavoro degli «specialisti» europei, seguendo l'ormai tradizionale, paradossale, movimento politico della potenza russa finalizzato alla propria staticità sociale.
In questo senso l'episodio del medico inglese, avvenuto certamente tra il 1770 ed il 1790, è più significativo di quanto appaia. Per rendersi conto della fissità sociale russa basti pensare che ancora agli inizi del '900, Nicola II (circa 135 anni dopo, e secondo i tempi russi ... ben sette zar dopo) voleva concedere a Rasputin un titolo ecclesiastico, ritenendo che questi, stregone, mago e/o illusionista, gli avesse salvato il figlio dall'emofilia. Rasputin, a differenza del medico inglese, rifiuta solo per non essere allontanato da corte. In questo caso, e siamo ormai ai primi anni del '900, non solo la concessione restava ben salda alla propria natura asiatista ma anche il merito, la competenza e persino lo «specialista».
Richiamandoci alla sua citata ambivalenza, è impossibile applicare alla Russia zarista il tradizionale concetto del bicchiere mezzo vuoto e mezzo pieno, predestinato ad essere svuotato o riempito. La Russia zarista, in realtà, appare sempre più chiaramente come un paradossale bicchiere che non è mai stato vuoto, che non sarà mai pieno, predestinato a rimanere tale o ad essere infranto.



Carlo Di Caro - Gennaio 2004


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